La mia nonna paterna si chiamava Leontina; era rimasta vedova ancora giovane e quando io andavo alla scuola materna lei poteva avere circa una settantina d’anni ed era stata operata da poco di un tumore al seno e faceva le applicazioni di raggi che le avevano ridotto la ferita in una crosta marrone. Siccome era rimasta sola, io ragazzino spesso andavo a dormire da lei o, per meglio dire, con lei, nel suo grande lettone matrimoniale. La camera dove dormivamo, era piuttosto grande e arredata con semplicità, aveva due finestre, una a levante e l'altra a mezzogiorno ed era luminosa e sempre fresca. Infatti d’estate la nonna, arieggiata la stanza e rifatto il letto, si premurava di tener chiusa l’imposta giusta, d'inverno invece chiudeva alla sera solo l’imposta di mezzo giorno, lasciando che l'altra finestra fosse illuminata poi dalla luce pubblica stradale. Vi aleggiava inoltre un profumo (chiamiamolo cosi) inconfondibile, che a me piaceva molto. Forse si trattava di una mescolanza di odori: odore di bucato, odore di legna e di fumo . Il coricarsi alla sera, specie nella stagione invernale, era un rito, in seno al quale le azioni e i tempi, sempre uguali, erano pervasi da un sottile fascino. Dunque, la nonna toglieva da sotto le coperte lo scaldaletto, cioe la padella di rame contenente brace e posta all’interno di una leggera struttura chiamata “monaga”; io allora mi infilavo subito per primo sotto le ruvide e calde lenzuola, mentre la nonna indugiava ancora armeggiando in cucina. Quando ormai stavo per cedere al sonno, ecco che arrivava all’orecchio, sempre più distinto, il rude ticchettio della sveglia che la nonna portava con se entrando in camera: “Clic cloc, clic cloc, clic cloc..”. Compariva dunque la nonna, quasi come un fantasma, nella sua lunga, bianca camicia da notte e si apprestava a “scalare” il letto con la lentezza tipica dell’età, riuscendo finalmente a coricarsi. A questo punto mi toglievo una maliziosa soddisfazione: tiravo un poco le coperte dalla mia parte, girandomi su di un fianco e infastidendo cosi la nonna, che sentendosi scoperta, reagiva in modo pittoresco: “Cavolo, no sta tirar le coperte tutte dalla tua parte, che così mi scopri”. Allora mollavo la presa (un bel gioco dura poco), davo la buona notte alla nonna e che spegneva la luce. Poi una grande quiete e un'atmosfera magica aleggiava nella camera, la luce di un lampione della strada sottostante filtrava attraverso le tende bianche e traforate della finestra, mentre il clic - cloc della vecchia sveglia era gradevole e rassicurante: infatti, quando, nel cuore della notte, mi svegliavo impaurito per qualche brutto sogno, il suo ticchettio sommesso, distinto e familiare, mi riportava ad una serena realtà. Sembrava voler dire la sveglia sorniona: “Non ti preoccupare, è stato solo un brutto sogno, qui tutto va bene e poi io sono sempre all’erta e sveglia per voi”. Se talvolta il sonno tardava un poco a venire, la finestra di levante ci regalava sempre qualche suggestiva visione: l'oscillare della lampada sulla pubblica strada al vento capriccioso di marzo, l'ondeggiare delle fronde di un noce sottostante colpite dalla tramontana o dalla grigia pioggia autunnale, gli arabeschi fioriti di ghiaccio sui vetri nelle serene e gelate notti d’inverno, ma anche, a sorpresa, il comparire silenzioso dei fiocchi di neve! “Nona, fiocca: domani jeme a slittàr” (Nonna nevica: domani andiamo a slittarel) dicevo allora. E in risposta: “Durme mò, che è tardi e dumane a di jè a la scol ...” (Dormi adesso, che e tardi e domani devi andare a scuola.