Mercoledì 24 novembre. Ore 21. Sono all'ingresso del Palazzetto dello Sport, mi hanno regalato per il mio compleanno un biglietto per assistere ad un concerto di Ian Anderson. Voi mi direte ma chi è sto tizio, ma per me che compio 63 anni, è stato il mito della mia giovinezza, più che i Beatles. Il PalaResia si presenta in versione quasi teatrale, con il palco rivolto verso una tribuna, parterre e gradinate, noi spettatori, posti prenotati, siamo tutti ordinatamente seduti. E' la cornice giusta per un leader, grande cantante, compositore e flautista del celebre gruppo rock dei Jethro Tull, che fa tappa in città con una nuovissima e sofisticata band, stravolgendo ampiamente i canoni prestabiliti. Il palco è volutamente scarno: quello a cui stiamo per assistere, non è semplicemente un concerto, e non è neppure l'autocelebrazione di una vecchia, rockstar anagraficamente compromessa (63 anni, come me, suonatissimi e per il mestiere che fa, potrebbero essere tanti), ma è uno spettacolo musicale di altissimo livello. Qui stasera siamo quasi in duemila. Famiglie intere (intese come genitori, figli e nipoti!) sono quì per un "giullare" di corte particolarmente dotato, capace di entrare nella storia del rock ma di non rimanerne prigioniero, e in grado di stravolgere canoni stilistici prestabiliti. Un anfitrione brusco, questo sì, ma accogliente e sincero. La casa di Ian Anderson non è la Scozia, dove è nato, né l'Inghilterra, nazione che l'ha «adottato»: la Heimat di questo sorprendente musicista è il palco. Fra un brano e l'altro, si prodiga con maestria nella contestualizzazione del brani: atteggiamento apprezzabile, se si prende in considerazione il vasto repertorio. Anderson si presenta con il suo caratteristico look: bandana in testa, gilet su maglietta stropicciata, blue-jeans e calzatura in pelle nera. La nuova band merita una menzione: il giovane Florian Opahle, ventisette anni di chitarrismo virtuoso di matrice metallara, John O'Hara alle tastiere e all'accordeon (fisarmonica elettrificata, già nei Jethro Tull), il bassista David Goodier, ed il batterista di scuola jazz Scott Hammond. L'acustica risulta di pregio già dal primo brano: una suonata natalizia riarrangiata in chiave rock/progressive, dove trovano spazio fraseggi strumentali contraddistinti da un tecnicismo mai autocompiacente. La prima mezz'ora di concerto si muove su queste dinamiche, dove il carisma di Anderson fa da cornice ad un suono ricco e contaminato, in cui ogni componente della band trova lo spazio per esprimersi al meglio. Intorno alle 21.35, salgono sul palco i quattro musicisti di Budapest dello Sturcz Quartet (un classico quartetto d'archi da camera), che eseguono due brani dei Jethro Tull riarrangiati da O'Hara, oltre a due pezzi con l'intera band. C'è spazio anche per «Preludio in Do maggiore» di J.S. Bach, e per il celebre brano «Bourée», rivisitazione di Anderson di una composizione dello stesso Bach. Dopo un quarto d'ora di pausa, il gruppo torna sul palco assai carico, con il front-man capace di offrire al pubblico uno spettacolo da vero giullare, comprendente anche la famosissima posa «della gambetta alzata». In un repertorio vastissimo, trovano spazio due classici dei Jethro Tull, Aqualung e Locomotive breath, come brano di chiusura, durante il quale il pubblico batte il tempo con mani e piedi, coinvolto da una performance di altissimo livello, che ha unito generazioni ed epoche, annullando, per due ore abbondanti, illusori confini generazionali, geografici e musicali.Sono uscito all'aria fresca e mi sentivo un ragazzetto catapultato negli anni settanta che fischiettando allegramente si avviava verso casa.Un bel regalo per una meravigliosa serata, se vogliamo un pò diversa per un compleanno, che io ho molto apprezzata, da parte dei miei più cari amici, che contraccambierò con una bella bevuta in barba agli anni che passano e che mai più ritorneranno indietro.
24 dicembre 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento